Senza qualcosa che prova la nostra esistenza ci sentiamo a disagio, proviamo un senso di vuoto.

I feticci rappresentano esistenza, concorrono a creare la storia delle persone, di “loro“ facciamo fatica a disfarci. Rappresentano un mondo di legami e affetti che non vogliamo perdere.

“ciapapolvar”.

Per i bambini sono oggetti transizionali, fonti di certezze. Da grandi diventano il veicolo della memoria, portano ricordi, vissuti familiari, momenti, passioni, dolori, affetti, amore. Testimoni “silenziosi” delle nostre vite, ci accompagnano nella nostra storia, ci sopravvivono. Attraversano il tempo, quasi immortali.

Si tratta di 12 opere, dipinte a olio su tela, che ritraggono, in un limbo astratto e scuro quasi come fossero gli avi di un antico castello, 12 oggetti feticcio che 'portano' i ricordi di infanzia di 12 bambini. A ogni tela è associato un breve racconto e la foto di un bambino.

La prima esposizione si è svolta a ZonaZago7 dal 21 al 24 maggio 2015. 

Vedi qui sotto il video dell'evento:

I feticci di Silla

Ne abbiamo tutti, almeno uno. Perfino quando non ce ne rendiamo conto: a volte ci manca solo la parola giusta per dare un nome alle cose.

“Feticcio” viene dal francese fétichè, derivato a sua volta dal portoghese feitiço – dal latino faticius, ovvero idolo falso, fittizio – che era il termine coniato dagli esploratori portoghesi quando vennero a contatto con le tribù autoctone dell’Africa, per designare quegli oggetti (idoli, amuleti) venerati dagli indigeni.

Partire dall’etimologia è già un viaggiare attraverso il tempo: le stratificazioni di significato e attribuzioni che hanno rivestito un segno, una parola, trasformandola semanticamente.

Ed è soprattutto questo il tipo di viaggio che vuole suggerirci l’ultimo progetto di Silla Guerrini – “I feticci degli altri” – nato quasi cinque anni fa, nella dolorosa occasione di una perdita importante: una cara amica, artista come lei, che se ne va in un lampo, lasciando un vuoto crudele.

Come si colma un’assenza? Si fa attraverso il naturale processo del ricordo, che è già una rielaborazione. Mentre ricordiamo, chiamiamo al nostro tempo reale qualcosa che non ci appartiene più: non presenza viva e pulsante, ma già simbolo ideale e trasfigurato.

Nasce così la “Geisha” (#feticcio 1), una delicata statuetta di porcellana che Silla sdraia sulla tela bidimensionale: da questa prima catarsi squisitamente pittorica, si apre la strada ad una più articolata modulazione del suo complessivo lavoro artistico.

Arrivano allora le fotografie d’epoca che ritraggono bambini e bambine. Sono foto d’infanzia, ovvero quel segmento di tempo cruciale, in cui tutto si decide, o quasi.

Sono le 11 persone alle quali la Guerrini è legata emotivamente: gli affetti più importanti. Il dodicesimo feticcio su tela non è altro che un autoritratto: l’orsacchiotto di peluche, fedele compagno dei sonni e sogni dell’artista bambina.

Silla ha deciso di entrare nelle stanze della memoria (e quindi nelle esistenze) degli altri. Attraversandole empaticamente è andata a scegliere degli oggetti, seguendo il filo di ricordi, racconti, aneddoti e intime confidenze che le sono state consegnate.

Di quelle trasmissioni verbali si conserveranno anche alcune parole: non tanto narrazioni, piuttosto dei brevi flussi di coscienza, tracce da seguire, come le briciole di pane in mezzo ad un bosco.

Le immagini e le parole si uniranno quindi alle altre sollecitazioni – uditive, olfattive e tattili – che nella creazione Silla ha fissato di volta in volta, per restituire infine un’installazione espositiva che è una sorta di bagno in cui s’immerge questo piccolo universo ludico-totemico che sono i dodici feticci dipinti.

L’atelier scelto per l’allestimento della mostra, diventa così il luogo teatrale di un bagno multi-sensoriale, dove le tele campeggiano come fossero disposte in una macro-teca, appoggiate su metri di cellophane, a metafora di un poetico congelamento: l’ennesima cristallizzazione del tempo.

La percezione diventa esperienza: tutti i canali vengono interpellati.

Vere e propria teca conservativa è invece il “Feticciario”: contiene oggetti-feticcio e proviene da un precedente progetto artistico (e collettivo), a testimoniare un percorso dalle lunghe radici e metabolizzazioni, anche inconsce.

Per quanto attraversi con disinvoltura quasi bulimica ogni medium a disposizione (dalla fotografia, al video, alla scultura, comprendendo anche tutta la macchina della mise-en-scène finale), è nell’olio della pittura che la Guerrini trova la sua più felice ed importante espressione artistica.

Gli oggetti-feticcio galleggiano dentro un fondale scuro, che imprime una certa sacralità individuale e liquida, trasformando cose ordinarie in piccoli totem. Peluche, giocattoli, bambolotti, marchingeni e orpelli per lo più adibiti a gioco. Sono tutti ritratti con pennellate decise e definite, discretamente materiche, che rimandano ad una gestualità che odora di incantesimo: un rito per sospendere l’inarrestabile scorrere del tempo.

La sottile iperbole cromatica è un richiamo gentile alle inclinazioni dei Fauves, che però diventano sussurri, ammorbiditi dalla volontà di aderire coerentemente ad una figura precisa, pur interpretandone il ricordo che evoca.

Impastare i colori ad olio (che si rapportano non a caso con dei tempi lunghi, rifuggendo l’istantaneità delle altre tecniche pittoriche) diventa un passaggio fisiologico nel corpo del rituale da consumare, per sottrarsi all’oblio crudele del tempo, del finito, della perdita.

Ogni tela diventa per la Guerrini un preciso atto d’amore. Ma è anche una preghiera, un estremo esercizio di trasfigurazione. Pescando dal pozzo intimo della memoria e degli affetti più radicati, ci viene consegnato un immaginario personale, che però può diventare una costellazione universale.

L’atto di venerazione laica che Silla esprime nella pittura dei feticci, diventa declinazione di genere e avrà quindi senso non solo per gli umani protagonisti delle opere, ma per chi vorrà guardarle, abbracciando una più audace corrente di senso e valore.

Proprio per dare ulteriore peso (anche fisico) a questo atto di dedizione e cura, Silla ha voluto raccogliere e conservare i propri capelli, che ha perduto ad ogni lavaggio negli ultimi 18 mesi. Sono 147 palline scure, conservate dentro un vaso di vetro. Non si tratta di un numero a caso, ma scelto secondo precise cifre cabalistiche: 1+(4+7, cioè 11), 1+11 quindi, la stessa algebra dei feticci che compongono il suo progetto.

Sotto spirito, sotto vuoto, congelati, plastificati.

Facciamo di tutto pur di non perdere qualcosa. O meglio, dovremmo fare il nostro meglio, per non dissipare niente di prezioso come l’identità più intima, nostra e delle persone che amiamo. Sono tutte prove di esistenza: addizioni contro la sottrazione del tempo e del vuoto.

Questo il messaggio, alla fine del viaggio. Che non è un pellegrinaggio sconsolato attraverso il tempo che ci sfugge, ma illuminazione pulsante, sotto il faro della memoria.

Il cerchio epifanico si chiude nella dedica: “a mio papà”. Un’altra perdita, enorme, che ha lasciato un vuoto, riempito dalla bellezza dei ricordi. Uno spirito guida, esattamente come la bambola, ovvero l’ultimo feticcio ad essere dipinto e legato alla madre: presenza viva quotidiana e riferimento affettivo essenziale, anche se altrove, in un’altra città, in un’altra casa.

Le geometrie pittoriche e di tutto l’apparato espositivo, possono quindi mettere in salvo e santificare, decretando una utopistica vita senza fine, di tutto quello che vorremmo (trat)tenere.

Non sarà per sempre, no. Ma a lungo. Molto a lungo e felicemente. Come se fosse una tradizione, che passa di testa in testa, di cuore in cuore: una sorta di testimone da portare avanti, con sempre rinnovata luce e senso.

Antonella Gasparato